Anche quest’anno, un’opera di Giuseppe Verdi aprirà la stagione lirica scaligera con una grande e complessa opera, assente da Milano dal lontano 1999, un’opera legata ad una tradizionale brutta fama tale da definirsi “Innominabile”.
Noi, nel solco della tradizione, continueremo a non nominare quest’opera foriera di sventure. Queste, innumerevoli e tutte documentate sono capitate sulla scena in molte edizioni della sua storia interpretativa compresa la “prima” a San Pietroburgo rinviata di un anno per la malattia del primo soprano, fino all’edizione del 1960 al Metropolitan di New York quando il baritono Leonard Warren morì in scena proprio mentre attaccava…”morir tremenda cosa”!
Opera drammaturgicamente complessa, tratta dal dramma di Angel Saavedra “ La fuerza del sino” del 1835 e nata dalla penna del Piave e del Ghislanzoni venne rappresentata nel 1862 a San Pietroburgo e approdò alla Scala nel 1869 dopo un robusto rifacimento del terzo atto insieme alla creazione della celeberrima Sinfonia (quella dei poderosi tre “Mi” ribattuti degli ottoni per intenderci, la tonalità del destino) .
Partitura atipica nella produzione verdiana, dove commedia e tragedia si mescolano con l’energia di un inarrestabile e imperscrutabile destino. Sebbene la trama sia una delle più inverosimili che si possa immaginare (esattamente l’opposto dell’unità aristotelica di spazio e tempo nel dramma) rappresenta una pietra miliare a favore della successiva produzione operistica russa, primo tra tutti Il il Boris Godunov di Musorgskij che non avrebbe la veste a noi nota senza il fondamentale insegnamento verdiano.
Lasciamo al Lettore il compito di leggere il racconto drammatico dell’opera per dedicarci alla sua vera essenza, quell’estetica che va contro ad ogni principio verdiano: Il ”fare svelto”, la ”stringatezza”, la ”parola scenica”, la ”tinta unitaria”, tratti distintivi dello stile verdiano, vengono qui diluiti e anziché raggiungere rapidamente lo “scioglimento “ del dramma, lo prolungano in situazioni sceniche dispersive, oltre che inverosimili.
Siamo ben lontani dalle sintesi fulminanti di tante opere verdiane fino a raggiungere i dispersivi echi mahleriani e schilleriani della seconda versione, quella scaligera.
Se ne accorse lo stesso Verdi, uomo di dubbi sentimenti religiosi, quando si preoccupò per i troppi morti dei protagonisti, che il pubblico non gradiva, tanto che propose una versione, l’ultima, con un finale, quello con la redenzione di Alvaro, che contrappone il pessimismo del destino, cieco e insensato, ad un disegno della Provvidenza, che vede nella fede l’unica via d’uscita.
Ecco questo era Verdi, burbero, intrattabile, miscredente ma è anche quello che conclude i suoi drammi musicali con uno spiraglio di Luce, quella Luce che lo condurrà a scrivere, “giunto sul passo estremo della più estrema età”, i “Pezzi sacri” da “mettere sotto il cuscino” come Lui voleva.
Ultima annotazione: quest’opera è celebre perché popolare o viceversa? Che sia stata la mano di Dio a ispirare una simile partitura? Se dubitiamo, ma senza certezza, che il burbero e spigoloso Verdi credesse nell’aldilà, certamente, per “Forza” vien da dire, Dio credeva in lui, un contadino proiettato nel futuro.
Dott. Adriano Tagliaferri