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Si è appena concluso il “rito” ambrosiano della Prima della Scala, il più grande e prestigioso teatro lirico al mondo.
Ancora una volta, e con piena ragione, Giuseppe Verdi con il gigantesco Don Carlo ha aperto il programma scaligero.
Mi si permetta una considerazione personale: un’opera che, insieme al Simon Boccanegra, francamente non mi sentirei di proporre ad un neofita della lirica e tanto meno a chi si avvicini alla musica verdiana per la prima volta. Intendiamoci, si tratta di due capolavori che spiccano per “regalità” e altissimo valore drammaturgico, valore che deve essere còlto, o almeno apprezzato appieno, dopo lunga frequentazione dell’estetica verdiana insieme ad una solida preparazione storica.
Scritto e pensato per il “Grand Opérà” di Parigi, dopo la giovanile Jérusalem e I Vespri Siciliani, l’opera rispecchia totalmente la grandeur francese in termini di gusti di musica lirica, gusti e abitudini ormai ben compresi dal maturo Verdi del 1867. Ispirato ad una opera letteraria del filosofo e poeta romantico Friedrich Schiller, Don Carlos Infant von Spanien, l’opera, fu commissionata in occasione della seconda Esposizione Universale di Parigi. Era originariamente in cinque atti con l’introduzione del balletto secondo il gusto del pubblico francese.
Nel 1884 Verdi ne ricavò una edizione in quattro atti, priva del primo atto, quello della foresta di Fontainebleau, e soprattutto priva del balletto.
E’ proprio questa l’edizione (il Don Carlo) diretta e concertata dal Maestro Riccardo Chailly, grande e coraggioso direttore che, ai miei occhi di verdiano assoluto, ebbe il merito di “aprire”nel 2015 con la Giovanna d’Arco del giovane Verdi. In termini di durata, l’opera si avvicina più ai capolavori wagneriani che alla concisione tipicamente verdiana; tuttavia la complessità dei temi trattati e, ancora una volta, se non bastasse, gli eventi storici narrati e l’accurata analisi dei sentimenti dei molti personaggi in scena giustificano la durata dell’opera.
Opera di forti contrasti, come sempre in Verdi, il tema dell’assolutismo di Stato e Chiesa appare il perno su cui ruota l’intero dramma. Fa da sfondo il quadro politico-religioso del 1560 dopo la pace di Cateau-Cambrésis tra Enrico II e Filippo II e la relativa pace tra Francia e Spagna suggellata dal solito matrimonio di convenienza in nome della ragion di Stato. Fa da sfondo la Spagna oppressa dall’Inquisizione spagnola rappresentata nell’opera dalla tetra figura dell’Inquisitore, sottolineata magistralmente dal timbro vocale del basso, con il compito di far convivere trono e coscienza. Lo scontro di due poteri assoluti, quello del Re, che nella realtà storica era ambiguo e di pessimo carattere mentre qui è indeciso e ligio alla Ragion di Stato, (anch’esso dal timbro vocale del basso), un Re che si confronta con la forza priva di pietà dell’Inquisitore.
Celeberrima pagina declamata dove la parola musicale verdiana, due bassi profondi che declamano, dà vita ad un capolavoro, lo scontro di sentimenti sottolineato da una musica tetra e ossessiva che magistralmente interpreta il clima politico e religioso del momento.
Tutta l’opera si fa strada attraverso contrasti nettissimi, come la causa fiamminga sostenuta da Carlo, principe delle Asturie e primogenito di Filippo II, o l’amore negato per la sua matrigna, Elisabetta di Valois, figlia di Enrico II di Francia, data in sposa a suo padre per onorare la Ragion di Stato. Ogni personaggio è solo con sé stesso, tra sospetti e tradimenti, paradossalmente solo come tutti i personaggi dipinti da Caspar Friedrich il più grande pittore del Romanticismo tedesco. A suggellare il conflitto tra l’anelito di libertà delle Fiandre e lo Stato, alleato dell’Inquisizione, il grande prodigioso affresco dell’Auto-da-Fè del III atto, suprema ipocrisia di una Chiesa che non perdona gli eretici. Su tutto aleggia il fantasma dell’imperatore Carlo V.
Qui è come se Verdi intervenisse personalmente a offrire la sua benedizione e conforto alle vittime dell’Inquisizione con una melodia incalzante in La maggiore fino a terminare con la processione degli eretici condannati al rogo.E’ stato scritto che il Don Carlo è fatta di chiari scuri, di lampi di luce e oscuro abisso, in una parola uno stile che solo il grande Caravaggio avrebbe potuto interpretare in pittura. Un Verdi che assoluto padrone delle sue straordinarie capacità espressive non dimentica l’esperienza accumulata; corali, cabalette concertati e finzione scenica fanno del Don Carlo un dramma musicale storico insuperato e, credo, ormai insuperabile.
Parole e musica che in Verdi si compenetrano e si equilibrano fra comunicazione melodica ed energia della mise en scéne che, insieme a scenografia e costumististica adeguata, come in questo caso, esprimono la caratteristica principale dell’estetica verdiana.
Sono certo che i musicologi tedeschi la definirebbero Gesamtkunstwerk, opera d’arte globale, tuttavia, se non fosse così “accontentiamoci” di considerarlo un grande omaggio all’Opera lirica, in questi giorni diventata patrimonio Unesco dell’Umanità.
Dott. Adriano Tagliaferri